ARBEIT MACHT FREI - Contro il lavoro


di Emiliano Laurenzi

«La situazione emotiva della moltitudine postfordista è caratterizzata dall'immediata coincidenza tra produzione ed eticità, «struttura» e «sovrastruttura», rivoluzionamento del processo lavorativo e sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo materiale e cultura. Soffermiamoci un momento su tale coincidenza. Quali sono i principali requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti, oggi? Abitudine alla mobilità, capacità di restare al passo con le più brusche riconversioni, adattività sposata a qualche intraprendenza, duttilità nel trascorrere dall'uno all'altro gruppo di regole, attitudine a una interazione linguistica tanto banalizzata quanto onnilaterale, consuetudine a destreggiarsi tra limitate possibilità alternative. Ebbene, questi requisiti non sono il frutto del disciplinamento industriale, quanto piuttosto il risultato di una socializzazione che ha il suo baricentro fuori del lavoro. La «professionalità» effettivamente richiesta e offerta consiste nelle doti che si acquisiscono durante una prolungata permanenza in uno stadio pre-lavoratvo o precario. Come dire: nell'attesa di un impiego, vengono sviluppati quei talenti genericamente sociali e quell'abitudine a non contrarre durevoli abitudini, che fungeranno poi, una volta trovato lavoro, da veri e propri «ferri del mestiere».
L'impresa postfordista mette a frutto questa abitudine a non avere abitudini, questo addestramento alla precarietà ed alla variabilità. Ma il fatto decisivo è una socializzazione (con questo termine intendo il rapporto con il mondo, con gli altri e con sé) che avviene essenzialmente fuori dal lavoro, una socializazione essenzialmente
extralavorativa. Sono gli chocs metropolitanti di cui parlava Benjamin, la proliferazione di giochi linguistici, la variazione ininterrotta delle regole e delle tecniche, a costituire la palestra in cui si forgiano doti e requisiti che, solo in seguito, diventeranno doti e requisiti «professionali». A guardar bene, la socializzazione extralavorativa (che poi, però, confluisce nel «mansionario» postfordista) consiste in esperienze e sentimenti in cui la grande filosofia e la grande sociologia dell'ultimo secolo, da Heidegger a Simmel in poi, ha riconosciuto i tratti distintivi del «nichilismo». Nichilistica è una prassi che non gode più di un solido fondamento, di strutture ricorsive su cui far conto, di abitudini protettive. Durante il Novecento il nichilismo è sembrato un contrappunto collaterale ai processi di razionalizzazione della produzione e dello Stato. Come dire: da una parte il lavoro, dall'altra la precarietà e la mutevolezza della vita metropolitana. Ora, invece, il nichilismo (abitudine a non avere abitudini, ecc.) entra in produzione, diventa requisito professionale, è messo al lavoro. Solo colui che è pratico nell'aleatoria mutevolezza delle forme di vita metropolitane sa come comportarsi nelle fabbriche del just in time.
È quasi inutile aggiungere che, in tal modo, va in pezzi lo schemino mediante il quale tanta parte della tradizione sociologica e filosofica si è raffigurata i processi di «modernizzazione». Secondo tale schemino, l'innovazione (tecnologica, emotiva, etica) sconvolge società tradizionali, in cui prevalevano consuetudini ripetitive. Filemone e Bauci, i pacifici contadini che Goethe descrive nel Faust, sono sradicati dall'imprenditore moderno. Niente di tutto questo, oggi. Non si può più parlare di «modernizzazione» laddove l'innovazione interviene, peraltro con periodicità sempre più contratta, su una scena già completamente caratterizzata dallo sradicamento, dall'aleatorietà, dall'anonimia ecc. Il punto cruciale è che l'attuale sommovimento produttivo si giova, come della sua più pregevole risorsa, di tutto ciò che lo schemino della modernizzazione annovera invece tra i suoi effetti: incertezza di aspettative, contingenza delle collocazioni, fragili identità, valori sempre mutevoli. Le tecnologie avanzate non provocano uno «spaesamento», tale da dissipare una pregressa «familiarità», ma riducono a profilo professionale la stessa esperienza dello spaesamento più radicale. Il nichilismo, dapprima lato in ombra della potenza tecnico-produttiva, ne diviene poi un ingrediente fondamentale, dote tenuta in gran conto nel mercato del lavoro.» - da Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee.



Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese, e per essere un comunista degli anni cinquanta, era già molto avanti nella sua critica ad una delle pietre angolari del pensiero marxista. Ma senza lavoro non si mangia. E questo assioma del triste senso comune è tanto più vero di questi tempi di quanto non lo fosse anni fa, in quell'inversione di passo a cui assistiamo ogni volta che oggi come oggi si tocca l'argomento del nostro futuro. Già, il nostro futuro. Perché il tema del futuro sembra sia stato espunto da qualsiasi considerazione relativa al lavoro. Ed il perché di questa sottrazione, di questo occultamento, ha le sue ragioni profonde, molto più sottili e molto più raffinate del semplice controllo sociale di cui il lavoro è palesemente uno strumento, ragioni che riguardano le forme della nostra stessa esistenza.

Esiste un'intera gamma di pensieri, ormai così intrinsecamente intessuti al nostro vissuto da essere in pratica prepolitici, la cui stessa espressione è divenuta problematica, i cui nessi logici sono saltati, o sono divenuti così stretti, così prossimi uno all'altro nel tempo, nel restringere lo spazio fra causa ed effetto, da fondersi e scomparire. Il lavoro, l'orizzonte ideale, esistenziale, personale, banalmente vitale del futuro come dimensione in cui pensarci non esclusivamente come individui soli, in cui proiettare il valore di quanto facciamo qui ed ora affinché non sia un agire privo di senso, sono divenuti liquidi, informi, irriconoscibili ai limiti della scomparsa. Dire futuro però, in questo senso, è dire condivisione. E se scompare il futuro, scompare la possibilità di condividere. Ed ecco il perché dell'urgenza del tema lavoro e della sua ridefinizione in relazione alla dimensione personale, sociale ed esistenziale del futuro.

Nel secolo scorso tutte le battaglie sociali relative al lavoro erano state portate avanti in nome dell'emancipazione dalla miseria e dalla povertà, e per condizioni di vita più dignitose; il famoso "otto ore per lavorare, otto ore per riposare, otto ore per studiare" era stato però declinato, sempre, come valore collettivo e condiviso. Raggiunto quel certo grado di emancipazione e dignità, il lavoro era stato lo strumento di costruzione di una società del benessere, giusta e laboriosa, sempre, ancora una volta, però, con un fine futuro collettivo. Ed in questo spicchio temporale era nata e fiorita la socialdemocrazia, ad esempio. Ma il lavoro, anche una volta esaurito il suo ruolo, era rimasto comunque un luogo di rilevanti contraddizioni, capace di mobilitare non solo il senso, ma le persone nella loro interezza di soggetti. Paradigmatici di questo periodo in cui il lavoro andava esaurendo il suo potenziale ideologico, sono stati gli anni settanta, in particolare in Italia, in cui il confronto su questo tema ha assunto le forme più durature e violente rispetto a tutti gli altri paesi cosiddetti sviluppati. Ma la fine di questa capacità di risvegliare le contraddizioni, tipica del lavoro della modernità, è venuta meno.

A determinare questo mutamento non sono state nuove politiche dell'impiego o semplicemente la risoluzione dei conflitti collegati al lavoro. Il fattore decisivo nel mutamento delle condizioni di confronto ed aspettative rispetto al lavoro ed al futuro, è stato senza dubbio la trasformazione profonda, potremmo dire la mutazione, della natura stessa del capitalismo. La mutazione a cui si accenna è quella del passaggio da un'economia della tarda modernità a quella di un regime produttivo di tipo postmoderno. Sul principio, questa mutazione è stata accolta da una grande euforia, quasi si parlasse di una nuova età dell'oro. Esemplificano quell'atteggiamento gli entusiasmi criminali dell'economia yuppie, come le lodi sperticate e speculative che vennero fatte alla cosiddetta new economy, in una fase invero ormai consolidata di questo processo. In versione casareccia, lo sbrilluccichìo consumistico dell'era craxiana era un sottoprodotto italico di quell'entusiasmo. Altro segnale distintivo dell'inaugurarsi di quell'era furono la liberalizzazione thatcheriana del mercato borsistico londinese, così come la crisi finanziaria di wall Street del 19 ottobre 1987. La finanza iniziava a sperimentare gli infarti monetari con cui spingere se stessa oltre i limiti imposti dall'economia reale.

Questa mutazione, compiutamente realizzata, è oggi sotto gli occhi di tutti: prevalenza delle attività di consumo e di fornitura dei servizi rispetto a quelle della vecchia produzione industriale, sganciamento totale ed ormai irreversibile delle dinamiche dell'economia reale propriamente detta, dalle attività finanziarie nel loro complesso, da cui anzi iniziano a dipendere in maniera sostanziale. La mutazione ha prodotto un capitalismo che vive e prospera sull'estensione indefinita dei consumi e sul ricorso alla finanza come processo astratto di creazione o distruzione reale di capitali. E questo assetto capitalistico, per le sue intrinseche caratteristiche, capaci di rendere mercificabili, per la loro immaterialità così affine ai giochi di borsa, le stesse emozioni, il tempo libero, l'identità personale e in sostanza tutto ciò che era esterno al dominio del lavoro, ha sviluppato una pervasività mai conoscita prima dal vecchio capitale industriale. La possibilità di una messa in produzione della stessa vita risiede esattamente nella creazione di ricchezza a partire da valori astratti. Il carattere concreto del profitto come era stato declinato dall'economia reale, assumeva ora le caratterstiche emotive ed illogiche dell'economia finanziaria.

Questo processo investe non solo le strutture economiche, ma azzera lo stesso limite che divideva lo spazio di ciò che era merce da ciò che non lo era, lo spazio del lavoro da quello della vita, ed è parallelo ad un altro processo, che sebbene non rientri strettamente nel tema del lavoro, ha però contribuito a ridefinire lo scenario in cui i soggetti possono o non possono immaginare il proprio futuro. L'altro grande mutamento è infatti il passaggio dal regime dello spettacolo - quello che Guy Debord descrisse anche troppo bene negli anni sessanta - a quello dell'informazione, che corrisponde al passaggio epocale dall'era degli strumenti di comunicazione analogici a quelli digitali.

Questo passaggio ha comportato una deflagrazione delle modalità con cui i soggetti percepiscono. Una deflagrazione fatta del proliferare abnorme di dati, informazioni, fonti, canali, modi di comunicare, interattività spinta, definitiva abolizione delle distanze e del tempo (il famoso "villaggio globale" preiconizzato da Marshall McLuhan), virtualità. L'insieme di queste pratiche e di questi fenomeni può essere definito regime informazionale, ed è il regime tipico di una società compiutamente postmoderna, fluida, in cui la tecnologia digitale ha pervaso tutto il percepibile ed inizia ad infiltrarsi nelle stesse modalità di percezione. L'immaginario legato a questa condizione in cui percepiamo, è un immaginario incapace di sedimentare immagini, di consolidare figure, di fissare momenti. Un immaginario potentemente individualistico, sebbene in grado di enucleare stereotpi di tipo frattale, per quanto questo possa sembrare in sé contraddittorio, ed anzi lo sia. Si tratta di un immaginario costitutivamente fissato sullo scorrere ininterrotto. In un vecchio medium come la televisione, si passa dal palinsesto alla tv di flusso. Nel lavoro, si passa dalla catena di montaggio, all'organizzazione rizomatica del lavoro, in cui le caratteristiche esistenziali e caratteriali delle persone, costituiscono elementi di valutazione e responsabilizzazione. Si tratta del primo passo verso un condizione senza precedenti dove l'immaginazione come pensiero di ciò che ancora non c'è, è sottoposta ad una costante messa in produzione secondo certi parametri. Alla colonizzazione dei corpi tipica della modernità, subentra la colonizzazione dell'immaginario, una delle pratiche di controllo della postmodernità

La tecnologia digitale, fra le altre cose, è stato il catalizzatore tecnologico e percettivo che ha permesso al capitalismo finanziario di muoversi in maniera nomade, slegando l'orizzonte dei profitti dalle regolamentazioni territoriali degli stati, e permettendogli una libertà d'azione sostanzialmente incontrastata, capace di esercitarsi su praticamente ogni aspetto della vita umana, non solo a quelli legati alla sfera della produzione e della valutazione delle merci. Questo ha permesso al capitale astratto-emotivo ed immateriale di avere un potenziale decisionale ed un potenza mobilitatrice enormemente più grande dei singoli stati, la cui forza è imbelle difronte a dinamiche che sono ormai compiutamente globali. E la stessa potenza che ha permesso alle dinamiche del capitale - la cui concretizzazione è il regime del mercato - di infrangere le barriere dei confini statali (uno dei costrutti identitari collettivi del Novecento nazionalista), ha permesso di abbattere le modalità con cui gli individui costruivano la loro identità individuale, e di rendere strutturale l'incertezza, valorizzando al massimo grado le doti di flessibilità e di mancanza di speranza - dunque di cinismo ed opportunismo - come qualità.

Tutta una serie d'interazioni e di attività che possedevano un carattere di individuabilità territoriale e di descrittività temporale - stavano in un certo luogo e duravano un certo tempo - sono andate incontro a mutazioni profonde. Il lavoro, un tempo attività produttiva descrivibile come individuale e protratta nel tempo, è divenuto una merce, vendibile, acquistabile e sostanzialmente indifferente rispetto al mero agente esecutore o realizzatore, cioè il lavoratore. Alla stessa stregua del lavoro, una gamma vastissima di socialità è stata mercificata in maniera compulsiva - che è l'equivalente della dinamica seriale della vecchia società industriale. Ma questa mercificabilità ha la sua genesi proprio nell'insieme di caratteristiche della vita così come organizzata dalla tarda modernità: stati nazionali, metropoli come centri economico-burocratici, massificazione dei consumi, strutturazione dei bisogni su scala sempre più estesa e con un'incidenza quantitativa sempre più rilevante. Come diceva McLuhan, l'intensificazione, o surriscaldamento di un medium, porta al suo capovolgimento. La massima intensità dell'organizzazione moderna del capitale, coincide con la sua mutazione. Nessun aspetto della vita, in questo senso, le sfugge. Semplicemente non esiste più alcuna barriera, alcun limite, nulla che non possa essere messo in produzione.

Lavorare stancava ai tempi dell'economia fordista e stanca anche oggi. All'epoca come oggi senza lavoro non si mangia. Ma se all'epoca il lavoro era un'attività, oggi è un mero prodotto. E questo ha conseguenze enormi. Perché chi lavora si trova nella posizione di dover vedere subordinati i suoi diritti come persona a quelli dell'economia, e dunque vedere subordinato il legittimo desiderio di pianificare il proprio futuro a logiche astratte sui cui né i sindacati, né gli stati possono intervenire più di un tot. E qui si ferma la critica più forte e più radicale che la sinistra oggi riesce a fare nel nostro paese. Una critica incapace di cogliere proprio la natura ultima dell'attuale scenario in cui il lavoro non è affatto quanto si ostinano a dirci, cioè un'attività che ci nobilita e ci offre gli strumenti per costruire il nostro futuro, bensì un prodotto forgiato con le nostre paure e le nostre incertezze, la cui qualità è tanto maggiore quanto più noi siamo disperati, soli, incapaci di condividere problemi, sofferenze, ingiustizie. Un prodotto il cui valore non ci riguarda, la cui ricchezza finisce altrove rispetto alle nostre tasche e di cui noi, con le nostre residuali identità, con i nostri sogni, le nostre speranze, siamo solo un aggravio, un problema, un costo.

Nessuno dei paladini sinistrorsi del lavoro, infatti, osa spingere la critica al cuore del problema. Ed il problema, oggi come ieri, è quello del controllo delle vite. Ma non solo del noto controllo fatto di sottrazione del tempo, di governo dei corpi e di disciplina del comportamento - tutte strategie ben individuate da quella che Foucault chiamava la biopolitica - bensì proprio dell'attitudine esistenziale della vita dei singoli individui. Se i vecchi agenti delle strategie di controllo della biopolitica, ovvero le cosiddette istituzioni totali (carceri, scuole, ospedali, fabbriche, etc.), ancora sono all'opera, sostanzialmente però l'area d'intervento sulle nostre vite è più immateriale, ma molto più potente. Il nichilismo, infatti, è la filosofia e l'attitudine esistenziale che costituisce il punto di valore, l'eccellenza nell'adattamento all'attuale regime lavorativo. Non solo dunque una sottrazione brutale del futuro, sottrazione che all'interno stesso dei luoghi di lavoro - altro concetto dissolto nella sua identificabilità spaziale e temporale - poteva innescare quelle contraddizioni che erano parte costitutiva della stessa politica volta alla sovversione dell'ordine costituito, no. Non si tratta più dunque di un'azione portata avanti da soggetti individuabili - padroni, governanti, militari, fascisti di varia risma, clericali, riformisti, ecc. - contro la quale procedere nell'elaborazione di una strategia eversiva o anche più semplicemente di lotta politica volta ad affermare i valori dell'uguaglianza, della solidarietà e della qualità esistenziale della vita, delle dimensioni gratuite come la felicità, l'amore, la pace. Ci troviamo invece difronte a processi impersonali in cui lo stesso sentimento di incertezza, la stessa paura, la stessa umiliazione personale e le strategie di rappresentarcela come capacità di adattamento, come impulso alla sopravvivenza (che è la natura dell'intraprendenza richiesta per non essere meri esecutori...), sono nobilitati dall'essere doti morali, marche esistenziali che ci distinguono dai rifiuti sociali, dai conservatori del vecchio ordine, dai terroristi, dai disadattati. Non è solo darwinismo sociale, ma esattamente il processo con cui si stabiliscono le caratteristiche stesse volte a definire chi è adatto alla semplice esistenza sociale - o meglio: di mercato - e chi no. E gli adatti sono coloro che sono disposti a mettere in produzione il proprio sentimento disperante della perdita del futuro, della vita come eterno presente gaudente, dell'abolizione del futuro e del suo incombente senso di colpa - ma anche di speranza - del disprezzo di qualsiasi forma d'immaginazione che si spinga, eticamente, a collegare al presente un futuro possibile.

Queste "doti" di mancanza d'immaginazione - e dunque anche di smemoratezza - sono per altro tipiche di chi vive nel mondo contemporaneo, di là dal lavoro. Occorre essere reattivi, costantemente pronti, disposti ad affrontare mutamenti improvvisi, attenti e incalzati dalla paura di poterci fare male, essere feriti od uccisi. Queste sono le banali caratteristiche che occorrono per adeguarsi, ad esempio, alla vita metropolitana. A fronte di una sempre nuova promessa di occasioni, che se non vengono colte è perché non ci si è annullati abbastanza nell'unico scopo degno: il successo, peraltro mai raggiunto stabilmente... La novità, diciamo così, sta nel loro essere messe in produzione, scavalcando i concetti moderni di professionalità, preparazione, competenza. Chi non ha speranza vive nel costante mutamento, senza nessun tipo di aspirazione verso il consolidamento di condizioni di vita stabili, considerate, ancor prima che impossibili, non desiderabili. Tutto il potenziale umano va impegnato qui ed ora, nell'attimo corrente, senza esitazioni, senza reticenze percepite sempre come sintomi di inadeguatezza, di contraddizione, di ostacolo. Il lavoro rende liberi quando è finalizzato alla scomparsa di ogni aspettativa e di ogni memoria, quando la nostra stessa disperazione costituisce un requisito curriculare.

Difronte a questo scenario, occorre ripensare proprio le modalità di riappropriazione delle forme di vita e di futuro, oltre che di memoria, che non passino attraverso il lavoro, ma che contro le sue forme attuali - forme tutte improntate alla nota di fondo del nichilismo - affermino nuovi paradigmi esistenziali, nuove forme in cui mettere in azione il potenziale vitale, nuove forme capaci di restituirci la possibilità di immaginare il futuro e di ricordare il passato, di là dalla disperazione. Perché non farlo significa non solo rassegnarci a vedere mercificato lo stesso dolore e la stessa disperazione di milioni di persone come noi, ma anche abiurare al nostro presente.

«La nostra vita è un assassinio attraverso il lavoro, ci fanno penzolare appesi alla corda per 60 anni e ci dimeniamo, ma noi ci libereremo». Georg Büchner - da La morte di Danton.

«In fondo, [...] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d'indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d'energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all' amare, all'odiare». Friedrich Nietzsche da Aurora.